Non c’è italiano (o quasi), che ripercorrendo l’albero genealogico della propria famiglia non s’imbatta in qualche antenato legato per vincoli di proprietà, o di sudore, alla bellezza della terra coltivata. Non c’è italiano di ultima generazione (o quasi) che non abbia a disposizione, senza saperne cosa fare e non provando alcun interesse, l’immensa portata di conoscenza e umanesimo di nonni o padri che hanno vissuto coltivando la terra, misurandosi ogni giorno con l’esigenza di ammaestrare la natura. Mi è capitato spesso, in estemporanee e fin troppo fugaci passeggiate in campagna al fianco degli anziani di famiglia, di invidiare l’immenso bagaglio di conoscenza sulle tecniche di coltivazione, già dimezzato rispetto alla generazione precedente, ma infinitamente più ampio rispetto al mio, che con fatica riconosco dalle foglie al massimo dieci o quindici alberi.
Insomma, un genocidio culturale, come diceva il solito Pasolini.
Un genocidio avvenuto lentamente, anno dopo anno, a causa delle trasformazioni della società imposte prima dall’industrializzazione selvaggia della nazione, e dal suo braccio armato, i media, aedi della necessità delle élite di sostituire i vecchi modelli di vita secolare con il pensiero unico del consumatore indefesso.
La nostra è un'esperienza che nasce dal pragma, e che proprio al pragma, cioè alla necessità di amministrare un’azienda agricola familiare in un momento storico di crisi assoluta e forse irreversibile, aggancia il proprio amore assoluto. Un amore che per questo non è mai amore morto, cristallizzato, non è mai l’amore fatuo, estetico, per un’ideale, ma è amore vivo, vitale e incrollabile, costretto a trasformarsi e rinnovarsi circostanza dopo circostanza. Amore vero per la terra e per ciò che essa è in grado di restituire a chi l’affronta.
Il mio bisnonno faceva l'apicoltore per uso domestico e non aveva bisogno di scriverlo. La sua vita era la testimonianza di come l’uomo aveva imparato a dominare la natura senza annichilirla.
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